Intolleranza al lattosio: quali sono le cause?
Lo zucchero principale contenuto del latte è il lattosio, un disaccaride che, per poter essere sfruttato come fonte di energia, deve essere scomposto nei due zuccheri semplici di cui è formato: il glucosio e il galattosio. Tutti i mammiferi neonati, compreso l’uomo, possiedono un enzima, la lattasi, che nel duodeno, una parte dell’intestino tenue, svolge questo compito. Alla fine dello svezzamento, quando cambia la dieta, per la maggior parte delle persone la produzione dell’enzima cala e tra i cinque e i dieci anni cessa quasi del tutto, per meccanismi e motivi evolutivi che non sono stati ancora ben compresi.
Quando queste persone bevono il latte, il lattosio non digerito passa nel colon, dove incontra i batteri che lo metabolizzano e producono acidi grassi e vari gas, tra i quali l’idrogeno, che dall’intestino passa nel sangue e da lì nei polmoni. Ed è proprio sulla produzione di idrogeno che si basa il test non invasivo più accurato per verificare l’intolleranza al lattosio: il cosiddetto breath test. In più, il lattosio richiama acqua nell’intestino per effetto osmotico, generando quindi diarrea, crampi, flatulenza e altri spiacevoli sintomi associati alla cosiddetta «intolleranza al lattosio». Le persone che da adulte continuano a produrre l’enzima (si parla di «persistenza della lattasi») possono invece continuare a bere il cappuccino tutte le mattine senza problemi.
Non necessariamente però chi non produce l’enzima manifesta problemi. A volte il consumo giornaliero di lattosio può selezionare una flora batterica intestinale capace di rimuovere i prodotti della fermentazione e di alleviare quindi i sintomi dell’intolleranza.
Fino a circa quarant’anni fa si pensava che tutti gli adulti potessero digerire il latte, e per le eccezioni si parlava di «deficienza della lattasi». Ora si sa che è esattamente il contrario: in realtà solo il 35 per cento degli esseri umani adulti ha la capacità di metabolizzare il lattosio.
Nel Nord Europa, la persistenza della lattasi è molto comune, con punte dell’89-96 per cento, ma le percentuali diminuiscono progressivamente man mano che si scende verso Sud, attestandosi al 15 per cento in Sardegna. Non a caso, nei paesi del Nord il consumo di latte fresco è culturalmente il simbolo di un’alimentazione sana e nutriente.
Invece, nella maggior parte del resto dell’Asia e tra le popolazioni native americane la persistenza della lattasi è molto rara. Non a caso nella cucina cinese latte e latticini non vengono utilizzati.
Grazie all’analisi del genoma ora sappiamo che la produzione della lattasi è regolata da un singolo gene sul cromosoma 2. I primi studi effettuati in Europa hanno dimostrato che negli individui «lattasi persistenti» è presente una mutazione genetica che dona la capacità di digerire il latte da adulti. I nostri antenati del Neolitico non erano in grado di farlo perché la mutazione è apparsa in tempi più recenti.
La sua diffusione è un fatto accertato, ma gli studiosi ancora discutono su quale sia stato esattamente il vantaggio evolutivo ottenuto. Alcuni ritengono che nelle zone del Nord Europa, caratterizzate da una scarsa esposizione solare, l’assunzione di latte fresco possa aver fornito una preziosa fonte di calcio e vitamina D, sostanza che nei paesi più a Sud viene prodotta nella pelle per azione della luce solare o assimilata grazie a una dieta ricca di pesce. La vitamina D regola l’assorbimento del calcio, quindi il consumo di latte fresco avrebbe scongiurato l’insorgere di malattie come il rachitismo. Nelle zone aride dell’Africa, invece, è probabile che la possibilità di bere latte da adulti abbia fornito un indubbio vantaggio ai possessori della mutazione, che potevano usufruire di una bevanda relativamente non contaminata e ricca di calorie e nutrienti senza contrarre la diarrea, un disturbo dalle conseguenze anche fatali perché provoca un’elevata disidratazione.